Retrospettiva su Parigi 2024, tra Olimpiadi woke e piagnisteo italico

Ott 30, 2024

Tempo di lettura: 7 min.

Senza entrare nel merito dei risultati sportivi, dato che il medagliere è pesantemente falsato dall’esclusione della Russia (moltissimi atleti, soprattutto negli sport da combattimento, hanno gareggiato sotto altre bandiere, vincendo diverse medaglie), i recenti Giochi Olimpici sono stati significativi per almeno tre aspetti.

Partiamo dall’inizio: la cerimonia di apertura. Si è trattato di uno spettacolo di intrattenimento che ha messo in primo piano la cancel culture e l’ideologia woke. Già la scelta di coloro che hanno portato la fiaccola denunciava la volontà dichiarata di cancellare ogni spirito identitario e di richiamo «mitico» dei giochi: niente stadio, schermi per riprendere il passaggio della fiaccola, fino alla scelta dei tedofori – Snoop Dogg è sicuramente un grande esperto di «torce», ma aldilà dei soldi dello sponsor, non si capisce il suo ruolo all’interno della storia millenaria delle Olimpiadi. Ancora peggio è andata con la cerimonia di inaugurazione: si è passati da una blasfema Ultima Cena queer a una Maria Antonietta decapitata in modo quanto meno irrispettoso e totalmente slegato da ogni contesto storico. Ora, è importante capire che non si è trattato di una linea stilistica alla moda, ma di una vera e propria scelta politica e culturale. I Giochi non devono più avere alcun riferimento storico e culturale alla Tradizione Indoeuropea, ma devono essere un festival (si ricordi il penultimo Festival di Sanremo…) in cui si esalta l’abolizione di ogni fondamento rituale, storico, tradizionale e culturale e che soddisfi appieno le esigenze delle multinazionali che lo finanziano, mettendo in scena uno spettacolo di distrazione di massa, che allontani i popoli da ciò che di Olimpico fa parte della loro cultura. Come interpretare l’idea di inserire – seppur in forma dimostrativa –la break dance tra le discipline Olimpiche? (1)

Cérémonie d'ouverture : le « défilé woke » des uns, l'ode à la diversité  des autres | Olympiques Paris 2024 | Radio-Canada

Il contesto culturale è lo stesso anche nel caso che ha scaldato anche l’estate politica del nostro Paese: la partecipazione di Imane Khelif al torneo femminile di pugilato. Aldilà delle speculazioni politiche, dei livelli di testosterone, dei risultati sportivi, ecc. la questione fondamentale va iscritta all’interno della teoria di genere. Provo brevemente a fare chiarezza sulla vicenda. Sia Imane Khelif che la taiwanese Lin Yu Ting furono squalificate dai Campionati del Mondo del 2023 dalla federazione mondiale di pugilato (IBA, International Boxing Association), non per i livelli troppo alti di testosterone, come chiarito dalla federazione stessa, ma perché, a seguito di esami, furono loro riscontrati cromosomi XY nel sangue. Come mai allora hanno partecipato, e vinto, le Olimpiadi? Presto detto. A partire dai precedenti Giochi di Tokyo, i tornei di pugilato, sia quello maschile che quello femminile, non sono più organizzati dall’IBA, accusata di poca trasparenza finanziaria e corruzione (anche se il motivo vero dovrebbe essere il suo rifiuto all’esclusione degli atleti russi dalle competizioni), ma da una speciale task force del CIO (Comitato Internazionale Olimpico), come se quest’ultima istituzione fosse esente dalla corruzione e dai clientelismi… Ora, appena appresa la squalifica da parte dell’IBA, il CIO algerino, aveva annunciato che avrebbe portato ugualmente Khelif alle Olimpiadi di Parigi, per combattere nel torneo femminile, volontà immediatamente sposata dal CIO internazionale, il quale ritiene che gli unici criteri da tenere in considerazione per decidere quali atleti avrebbero potuto partecipare sarebbero stati il livello di testosterone (inferiore per i 12 mesi prima dei Giochi di una certa soglia) e il documento di identità del Paese dell’atleta in cui si affermava il suo genere. Situazione più o meno identica anche per Lin Yu Ting. Appare chiaro, quindi, che nulla hanno a che vedere l’aspetto estetico delle atlete, i presunti vantaggi ottenuti dal livello di testosterone, o la più o meno decorosa «ritirata» della Carini (a mio avviso, la Federazione Italiana avrebbe dovuto impedire alla nostra atleta di salire sul ring per protesta, come coraggiosamente fa l’Iran con i propri sportivi qualora dovessero incontrare degli israeliani). Qua la vicenda ruota attorno alla cosiddetta ideologia gender. Quali criteri, infatti, si devono prendere in considerazione per decidere in che torneo può partecipare un atleta? Il parametro naturale (hai cromosomi XX gareggi nel femminile; hai cromosomi XY, anche se in parte, partecipi a quello maschile) o quello politico (lo Stato, in base a criteri legislativi, ti fornisce un documento col quale si decide a che torneo puoi partecipare). La questione sta tutta qua. Se è la natura a determinare il genere di un individuo oppure può essere un ente politico umano che stabilisce, senza tenere conto del dato naturale oggettivo, il genere di una persona. Nell’umanismo, per dirla con Martin Heidegger, dilagante, in cui l’uomo è al centro dell’universo, e che ritiene di poter ignorare, nella migliore delle situazioni, nelle peggiori, la Natura, o di poterne disporre a proprio piacimento, nelle peggiori, era ampiamente prevedibile, che si scegliesse la via politica del gender fluid, in cui il dato cromosomico naturale non avesse alcun peso. E infatti così è stato!

Olimpiadi 2024, chi è la pugile algerina Imane Khelif e perché per il Cio  non ha vantaggi ormonali I Sky TG24

Infine, vorrei segnalare un aspetto che riguarda, almeno per quello che ho notato, la spedizione italiana ai Giochi. Fin dai primissimi giorni, che si trattasse di un match di pugilato, di un assalto di scherma, o di una lotta di judo, si è assistito a un continuo piagnisteo da parte di atleti e allenatori (financo di Presidenti delle varie federazioni) che urlavano all’ingiustizia e al complotto. In un Paese di 56 milioni di allenatori di calcio, mi astengo dal commentare risultati di sport che spesso nemmeno seguo, però o qualcuno ci spiega come mai il mondo, in qualunque disciplina sportiva, ce l’ha con l’Italia o appare chiaro che si vogliono nascondere risultati altamente scadenti come nel pugilato, i cui unici due atleti con possibilità di medaglia sono usciti al primo turno o come nel judo, dove la autoproclamata «nazionale più forte di sempre» ha vinto una sola medaglia (si noti che nel medagliere generale ci ha superato l’Olanda, Paese decisamente meno popoloso del nostro…). Non contenti, abbiamo assistito allo spettacolo di alcune atlete e atleti, su tutte Bendedetta Pilato, i quali, per giustificare i propri insuccessi, si sono trincerati dietro a frasi tipo «mi sono goduta il villaggio olimpico», «a volte conta anche solo partecipare», «non ho vinto ma mi sono divertita», e altre dichiarazioni di questo tenore. Partendo dal fatto che andrebbe ricordato a costoro che l’epoca dei dilettanti alle Olimpiadi è finita da un pezzo, dato che tutti gli atleti che partecipano ai Giochi sono stipendiati dallo Stato, appartenendo a gruppi sportivi statali (Guardia di Finanzia, Carabinieri, Polizia, ecc.), costoro sono lì a rappresentare il nostro Paese e a svolgere un lavoro, non sono in Erasmus o in qualche viaggio post-diploma. Escludo che muratori, facchini, operai non specializzati, braccianti, e altre categorie che recepiscono salari paragonabili (ovviamente al netto di sponsor) degli atleti dichiarino a fine giornata che «si sono goduti il viaggio». Ma, a parte questo dato, l’aspetto più preoccupante è la mentalità che si cela dietro questo approccio (più volte la Pilato ha tentato invano di spiegare che non si era espressa male, me voleva proprio dire che per lei l’importante non era la gara ma divertirsi…).

Olimpia: Culla dei Giochi Olimpici: Un viaggio nella storia e  nell'attualità -

Quello che emerge è la concezione dello sport come mero evento ludico: l’importante è stare insieme e divertirsi… ovviamente stipendiati e magari lautamente pagati da qualche sponsor. Questa è un’idea distorta di quello che dovrebbe essere la disciplina sportiva. Lo sport deve essere visto come una sfida verso noi stessi, che ci deve spingere a dare sempre il 101% delle nostre possibilità, ma non per una gara contro gli altri, bensì per «elevare» sé stessi. Quello che è sbagliato non è pretendere da ciascuno il suo massimo, ma pretendere il risultato, il piazzamento, la vittoria. La gara non deve mai essere contro gli altri, cosa che genera tutti i malesseri psicologici e sociali che vediamo oggi giorno (competizione sociale sfrenata, richiesta continua di maggiore produttività, individualismo assoluto, carrierismo a tutti i costi, ansia, depressione, ecc.) ma solo contro sé stessi: sono i nostri limiti i traguardi da superare. Non importa se si arrivi primi o duecentesimi, si può anche arrivare ultimissimi ed essere contenti, ma la domanda che bisogna porci al termine di ogni nostra attività, e quindi, nel caso in questione di ogni competizione sportiva, è: ho veramente dato il 101% delle mie possibilità? Se forse avessi dato quel qualcosa in più, avessi fatto quell’ennesimo sacrificio, speso quella piccola goccia di sudore in più, sono sicuro/a che non avrei potuto fare di meglio? Forse non è un caso che in questi ultimi Giochi l’Italia ha ottenuto il record di «medaglie di legno», i quarti posti, quelli che ci sono solo andati vicino (a titolo esemplificativo, la Pilato ha perso il bronzo per un centesimo… siamo certi che se avesse profuso un piccolissimo sforzo in più non avrebbe centrato l’obiettivo?)

Le antiche Olimpiadi (VII)

E’ questa «costante attenzione», ciò che la tradizione Buddhista definisce Samadhi, a fare la differenza. Se tutti noi, in ogni cosa che facciamo, ponessimo sempre la massima attenzione, il massimo sforzo, allora la Comunità tutta si eleverebbe e le sue sorti migliorerebbero esponenzialmente; invece, viviamo un’epoca piatta, in cui ai giovani non si insegna la gioia del sacrificio, la voglia di elevarsi (raggiungendo l’Übermensch di Nietzsche), lo slancio eroico; ma, al contrario, li si vuole docili, spenti, che si accontentino dei nuovi feticci del consumismo (l’ultimo modello di Playstation odi IPhone). Siamo in preda a un «giustificazionismo» che premia la mediocrità, la voglia di non migliorarsi e di non superare sé stessi, perché in fondo quello che conta è solo che i giovani siano addormentati da droghe (legali, leggere o pesanti, non importa) o da realtà virtuali (videogiochi, cellulari, social media). Se poi tutto questo porta a una vita e a una Nazione che vive nella mediocrità poca importa, l’importante è giustificare sempre tutti e trovare scuse sempre al di fuori di sé stessi. Insomma, andrebbe ricordato, come dice la filosofia islamica, che se esiste una piccola Jihad da combattere contro i nemici esterni, quella più importante è la grande Jihad da combattere contro sé stessi.

Note:

  • Per approfondire questi aspetti, si può consultare l’ottimo articolo apparso sulla rivista Èlèments e da me tradotto per G.R.E.C.E. al link: https://www.grece-it.com/2024/09/02/atene-berlino-parigi-grandezza-e-decadenza-del-rituale-olimpico/