Quando le radici contano: Maōri e Destra Sociale, un ponte inatteso nell’epoca delle identità

Lug 30, 2025

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In un mondo sempre più globalizzato, dove l’omologazione culturale sembra la norma e l’identità un fastidio da rimuovere, può sembrare paradossale trovare punti di contatto tra mondi apparentemente opposti: da un lato i Maōri della Nuova Zelanda, popolo indigeno in lotta per il riconoscimento della propria cultura, lingua e sovranità; dall’altro, le istanze della destra sociale e identitaria europea, spesso bollate come retrograde, ma in realtà mosse – almeno in parte – da una volontà simile: la difesa delle radici, del senso di appartenenza, della continuità culturale. Ma davvero questa connessione è così assurda?

La riscoperta delle radici

Le proteste Maōri degli ultimi anni – dalle battaglie per il riconoscimento legale della lingua te reo, all’opposizione alla cancellazione di toponimi tradizionali, fino alla difesa delle terre ancestrali – raccontano una storia di resistenza culturale. Non si tratta solo di diritti civili in senso astratto, ma della rivendicazione concreta di una visione del mondo, di valori ereditati e di un’appartenenza millenaria che si vuole trasmettere alle generazioni future.

E cosa sono, se non questo, anche i cardini del pensiero della destra sociale e tradizionalista? Difendere l’identità nazionale, i valori fondanti di una comunità, il legame con la terra, la famiglia e la cultura tradizionale: elementi che – seppur in un contesto storico e sociale radicalmente diverso – ritroviamo nei cori delle proteste Maōri. I conservatori identitari parlano di “sradicamento”, di “società liquida”, di “decadenza valoriale”. I Maōri, da parte loro, denunciano l’erosione della loro whakapapa (genealogia spirituale e culturale), lo smantellamento della trasmissione intergenerazionale del sapere, la marginalizzazione della loro visione del mondo.

Territorio e sovranità: un linguaggio condiviso

Un altro asse di convergenza è la centralità del territorio. I Maōri non vedono la terra come un semplice bene economico, ma come una parte dell’identità collettiva, un tāonga (tesoro sacro) da custodire. La destra sociale, specie nelle sue declinazioni rurali o cattolico-tradizionaliste, ha da sempre opposto alla visione mercantile del territorio una lettura sacrale e comunitaria: la terra non come merce, ma come eredità da tramandare.

La rivendicazione della sovranità indigena – il tino rangatiratanga – può sorprendere chi è abituato a vederla solo come un’espressione di lotta decoloniale, ma se la si guarda più a fondo, richiama temi cari anche al pensiero sovranista europeo: autodeterminazione, autogoverno, rifiuto delle imposizioni dall’alto. È un’identità che si rifiuta di essere appiattita, che chiede di essere padrona in casa propria – una frase che suona familiare, in altri contesti politici.

Identità contro omologazione

Questa convergenza non è totale, né priva di contraddizioni. Le lotte indigene si sono spesso intrecciate con istanze progressiste, mentre la destra identitaria europea ha talvolta assunto posizioni critiche verso le rivendicazioni etniche che percepisce come “separatiste” o “anti-occidentali”. Eppure, al di sotto delle divergenze politiche contingenti, emerge un elemento comune: il rifiuto dell’indifferenziato, dell’ideologia globalista che cancella le specificità in nome di una neutralità astratta e tecnocratica.

Quando un Maōri si oppone alla sostituzione della lingua te reo con l’inglese in una scuola pubblica, sta lottando per lo stesso principio per cui un tradizionalista europeo difende il presepe nelle scuole: non si tratta di esclusione, ma di radicamento. Non è xenofobia, ma volontà di riconoscersi in una storia collettiva.

un nuovo spazio per l’identità?

In un’epoca dove “identità” è parola che spaventa, ridotta spesso a slogan o stigmatizzata come retriva, forse il dialogo inaspettato tra mondi così distanti può aprire spazi di riflessione. Non per omologare le lotte, né per appropriarsene in modo strumentale, ma per riconoscere che la fame di appartenenza, il bisogno di memoria, il desiderio di continuità non sono esclusiva di una parte. Sono universali. E meritano rispetto.

Forse, in fondo, chi difende la propria identità – che sia nei marae neozelandesi o nei villaggi europei – non è il nemico del futuro, ma il suo custode più prezioso.