Siamo nell’aprile del 1961, nei giorni del putsch dei generali di Algeri a seguito delle tensioni e dei drammi innescati dal conflitto algerino e dalle resistenze dei militari alla politica decisa dal generale Charles de Gaulle, presidente della V Repubblica.
Tratto da G. Peroncini, La maledizione dei centurioni, 4 – Soldati perduti: l’onore senza gli onori. Il putsch dell’aprile 1961, de Gaulle e la rivolta militare, di prossima pubblicazione per le edizioni Passaggio al bosco.
«De Gaulle, mente glaciale in ogni circostanza, pensa a tutto. A cominciare dalla sua famiglia.
L’uomo che non esiterà a sacrificare decine di migliaia di persone, comprese donne e bambini, per raggiungere gli scopi della sua politica, invia immediatamente il suo aiutante di campo presso il capo di stato maggiore della Marina, l’ammiraglio Georges Cabanier, per fare rientrare d’urgenza Le Picard, la nave comandata da Philippe de Gaulle a Mers el-Kébir, per evitare che gli ammutinati prendano in ostaggio il figlio del capo dello Stato. Non sarà l’ultima volta, come sappiamo dai giorni della fuga a Baden Baden nei giorni del maggio 1968, che il generale de Gaulle si preoccuperà di mettere in salvo la sua famiglia durante giorni di grave emergenza nazionale. Il concetto del «Eh bien, mon cher monsieur, vous souffrirez…!» buttato ferocemente in faccia ai musulmani fedeli alla Francia, evidentemente, non si applicava al suo entourage familiare.
Forse anche qui risalta quella differenza tra spagnoli e francesi, già ricordata al momento dell’avvertimento lanciato a Salan e Susini poco prima di abbandonare l’esilio madrileno per trasferirsi clandestinamente in Algeria, allo scoppio dell’insurrezione. Evidentemente, nonostante la facciata monumentale, il generale Charles de Gaulle non era forgiato nella stessa tempra del colonnello José Moscardó Ituarte…[1]
Il 22 aprile alle 17 si aprì il Consiglio dei ministri convocato in seduta straordinaria. «Abbiamo trovato il generale nella sua attitudine delle “tempeste”: una calma sconvolgente, una volontà implacabile, non ci sono punti deboli in questo acciaio».[2]
Familiari a parte…
Come ricordato, de Gaulle, che i suoi collaboratori trovarono più deciso e determinato che al tempo delle “barricades”, colse la palla al balzo offertagli dalle circostanze per applicare immediatamente, d’accordo con il primo ministro, l’articolo 16 della Costituzione, l’état d’urgence che gli attribuiva i pieni poteri dei giorni di guerra. Anche se in quelle drammatiche circostanze si era tolto la soddisfazione di far conoscere ai suoi ministri quanto poco tenesse in considerazione la sfida lanciatagli dai generali di Algeri con quella frase passata alla Storia: «Ce qui est grave dans cette affaire, messieurs, c’est qu’elle n’est pas sérieuse…».
Dal canto suo, il ministro dell’Interno Roger Frey si mise al lavoro per stroncare l’embrione di ribellione presente sul suolo metropolitano.
Il generale Faure, il prefetto “Jo” Lèger, il maggiore Robert Casati e altri vennero arrestati in casa del maggiore Philippe Blèhaut. Costoro avrebbero dovuto essere gli ispiratori di un fantomatico “complotto di Parigi” che avrebbe dovuto assicurare agli insorti la presa dei punti nevralgici della capitale francese. Si parlò di un concentramento di circa 1.800 attivisti armati, ex paracadutisti, studenti, militanti di estrema destra, in tuta mimetica e basco rosso, nella foresta di Orlèans e di Rambouillet. A questi si sarebbero dovuti aggiungere tre colonne del 2e Régiment de hussards di Orlèans e del 501e Régiment de chars de combat di Rambouillet. Obiettivi dei rivoltosi metropolitani, la Prefettura, il Parlamento, il ministero dell’Interno, il Matignon, l’Eliseo…
Il “provvidenziale” arresto di Faure e dei suoi aveva mandato in frantumi i sogni di gloria dei giovanotti concentrati nelle foreste. In attesa di ordini che non giunsero mai, rimasero ad aspettare disciplinati e decisi, finché un distaccamento di uomini della Gendarmeria, poco propensi a un combattimento fratricida, oppure colpiti dal numero degli attivisti, ingiunse loro di squagliarsela. I 2.000 “paracadutisti” se ne tornarono con le pive nel sacco alle loro case. Un copione che avrebbe anticipato scenari anche dell’attualità italiana, a mezza strada tra il drammatico e il grottesco…
Questo scenario, d’altra parte, sembra appartenere a quel ricorrente regno del fantastico e del velleitario, tipico dei complottatori professionisti dell’estrema destra, truculento nella forma quanto spesso ben oltre i limiti del parodistico nella sostanza. Non si capisce, infatti, come 2.000 civili avrebbero potuto, non già impadronirsi di Parigi, quanto tenerla all’indomani del colpo di mano. Ciò non toglie che al processo del “complotto di Parigi” il generale Faure si vide comminare una pena di 10 anni, così come il colonnello Roger Vaudrey. Altre pene solo in parte meno severe colpirono le responsabilità degli imputati minori.
Di quelle vicende, abbiamo una testimonianza diretta che per alcuni apparirà forse inaspettata. Uno degli aspiranti golpisti metropolitani era infatti Philippe Leroy-Beaulieu, lo “Yanez” della popolarissima serie di sceneggiati televisivi, per la regia di Sergio Sollima, dedicati ai romanzi di Sandokan usciti dalla penna di Emilio Salgari, e interprete a vario titolo di circa 190 film, anche se non tutti destinati a imperitura gloria cinematografica.
Leroy nel 1951, a 21 anni, era stato chiamato al servizio militare. Decise di fare l’ufficiale di complemento nei reparti paracadutisti e venne inviato a Pau, alla Scuola militare di paracadutismo. Sono gli anni della sale guerre in Estremo Oriente e dopo «una dura ma favolosa esperienza della guerra in Indocina», cominciata nel 1952 come tenente all’8e Groupement de commandos parachutistes, con il contratto di arruolamento scaduto e due decorazioni di onore al merito, Leroy si reimbarca per la Francia, tre mesi prima di Dien Bien Phu. Con qualche rimpianto come confessa nell’autobiografia: «Rimarrete scandalizzati: mi piaceva la guerra, ma non ho mai sopportato la vita di caserma».[3]
Si riarruolerà come riservista nel 1958 in Algeria e verrà inquadrato nel 18e Régiment de chasseurs parachutistes. Si guadagnerà altre due citazioni al merito ma vivrà da guerriero in congedo le vicende del putsch di aprile del 1961 che come sappiamo vedrà schierati in prima fila anche i paras del 18e Rcp, agli ordini del tenente colonnello Masselot.
In quei giorni drammatici, Leroy giocherà in territorio metropolitano un ruolo attivo, coerente con le sue idee e le sue emozioni, una scelta che finirà per avere ripercussioni decisive e imprevedibili sul suo destino personale e professionale. «Tornato a Parigi, all’alba di sabato 22 aprile 1961, la radio di Algeri annuncia che “l’esercito ha preso il controllo del territorio algerino-sahariano”. È il colpo di Stato di Algeri. I generali Challe, Jouhaud, Salan e Zeller organizzano un complotto per un’Algeria francese contro il governo e il generale de Gaulle. Il 6 giugno 1958, nel discorso di Mostaganem, de Gaulle aveva pronunciato il suo famoso: “Vi ho capiti. Viva l’Algeria francese! Viva la Repubblica!”. Insieme al tenente R., a Costantina, lo avevamo ascoltato. Aderisco alle idee dei golpisti (gli uomini ai miei ordini in Algeria erano tutti di leva: sarebbero dunque caduti invano?), mi metto in contatto con i miei ex superiori, il maggiore L. e il capitano B. Sono a capo di una compagnia, i camion con i motori che girano al minimo nei sotterranei di Vincennes, tre lanci notturni a Toussus-le-Noble, gli obiettivi sono stabiliti e, tra gli altri, ci sono le organizzazioni di sinistra pro Fln. Aspettiamo l’ordine per rovesciare il governo, che nel frattempo fa arrestare vari nostri complici».[4]
Dopo il fallimento del putsch, Leroy viene informato in via riservata di trovarsi sulla lista dei ricercati. Decide allora di fuggire all’estero. Attraversa il Colle del San Bernardo e si ritrova in Italia, dove inizierà la sua lunghissima e intensa carriera cinematografica».
NOTE:
[1] Il colonnello José Moscardó Ituarte (1878-1956) fu l’anima e il protagonista dell’eroica resistenza della fortezza dell’Alcázar di Toledo, dal 21 luglio al 28 settembre 1936, tragico tornante storico della Guerra civile spagnola destinato a entrare nella leggenda. Moscardó allo scoppio del conflitto era governatore militare della provincia di Toledo, in piena zona “rossa”, ma decise di schierarsi con l’alzamiento guidato dal generale Francisco Franco. Alle sette del mattino del 21 luglio 1936, nel cortile interno della fortezza di Toledo, l’Alcázar, sede dell’Accademia militare spagnola, venne letto il comunicato che dichiarava lo stato di guerra tra la provincia di Toledo e il governo del Fronte popolare di Madrid. Con Moscardò si asserragliarono nella fortaleza 1.760 persone tra ufficiali, cadetti, falangisti e membri delle forze dell’ordine insieme a 670 civili non combattenti, un centinaio di uomini troppo vecchi per battersi, 520 donne e 50 bambini. Cominciò così l’epopea dell’assedio dell’Alcázar. Moscardó e i suoi sostennero per settanta giorni, contro ogni previsione, le ripetute ondate di assalto delle forze repubblicane che tentarono – anche con l’impiego di formidabili cariche esplosive sotterranee, scavate nel sottosuolo della fortezza dai minatori delle Asturie – di spazzare via la resistenza franchista di Toledo, colpita ogni giorno dal tiro delle artiglierie, ed entrata nella ribalta giornalistica internazionale grazie all’attenzione che si era conquistata per i resoconti dei reporter della stampa mondiale che seguivano le vicende della Guerra civile. Ogni giorno, nonostante i terribili colpi subiti, il colonnello Moscardó riusciva a inviare il suo comunicato radio: “Sin novedad en el Alcázar…”, “Niente di nuovo dall’Alcázar”. L’eroica difesa stimolò le forze di Franco in tutta la Spagna e fece impazzire di rabbia i repubblicani.
Il 23 luglio miliziani comunisti catturarono il giovanissimo figlio di Moscardó, Luis. Si misero in contatto telefonico con l’Alcázar. Al colonnello Moscardó il commissario politico delle forze assedianti comunicò che, se non avesse presentato la resa entro dieci minuti, il figlio sarebbe stato fucilato. Moscardó replicò seccamente. «Potete risparmiarvi i dieci minuti che mi avete offerto. L’Alcázar non si arrenderà mai…!». Poi chiese di parlare con il figlio. «Raccomanda la tua anima a Dio e muori come un vero spagnolo», gli disse senza apparente emozione il capo degli “Alcázareños”. «Lo farò», gli rispose il figlio. Luis Moscardò venne fucilato al Paseo do Transito di Toledo, qualche giorno dopo. Sullo slancio del supremo sacrificio del comandante, da quel momento nessuno dei difensori considerò mai l’ipotesi di una resa. Nonostante sofferenze e privazioni spossanti, con il susseguirsi di assalti di fanteria appoggiata da mezzi corazzati, bombardamenti aerei e d’artiglieria e l’incessante tiro di fucileria dei cecchini dalle case circostanti, l’odiato baluardo nazionalista teneva ostinatamente la posizione. Nell’Alcázar si sopravviveva di stenti, razionando l’acqua putrida della piscina e della cisterna medioevale. Il 28 settembre 1936 le avanguardie franchiste, comandate dal generale José Varela, entravano in Toledo, liberando l’Alcázar e i suoi difensori. Il colonnello Moscardò accolse l’indomani il Generalissimo Franco con parole entrate nella leggenda e nella Storia: «Sin novedad en el Alcázar…». La difesa dell’Alcázar divenne in Spagna uno dei più importanti simboli dell’eroismo franchista. Promosso generale Moscardó, grande appassionato di sport, tra il 1941 e il 1956 fu presidente del Comitato olimpico spagnolo, accompagnando la nazionale alle Olimpiadi di Londra del 1948 e di Helsinki del 1952.
[2] L. Terrenoire, De Gaulle et l’Algérie. Témoignage pour l’histoire, Paris, 1964, pag. 228.
[3] P. Leroy, Profumi, Pasian di Prato (Ud), 2012, pag. 38.
[4] P. Leroy, op. cit., pag. 64-65.