Il dibattito attorno alla violenza di genere, che merita tutta la nostra attenzione e serietà, sta purtroppo scivolando verso un clima di generalizzazione tossica che rischia di compromettere il dialogo e di alienare proprio quelle persone che, nel quotidiano, rappresentano il rispetto e la cura verso il prossimo. Mi riferisco a quegli uomini, come il sottoscritto e tanti altri, che sono cresciuti con una solida educazione al rispetto delle donne, che si impegnano ogni giorno per costruire relazioni basate sull’uguaglianza e sulla stima reciproca. Non siamo colpevoli di nulla, e non accetteremo di essere accusati per il solo fatto di appartenere a un genere o ad una categoria di persone.
Generalizzare, insinuare che ogni uomo sia un potenziale carnefice o controllore, è una scorciatoia “intellettuale” – anche se di intellettuale ha ben poco – mediata attraverso un approccio semplicistico e pericoloso. Frasi come quelle riportate nel manifesto – “Perché ti stai truccando? A me piaci così” – vengono decontestualizzate, caricate di una valenza negativa e considerate automaticamente sintomatiche di violenza psicologica. Questo non è un passo avanti, è una deriva culturale che rischia di banalizzare le vere battaglie contro la violenza di genere.
Non siamo tutti uguali, non siamo tutti colpevoli
Dobbiamo dirlo chiaramente: gli uomini non sono un blocco monolitico. Confondere i criminali e i manipolatori con la grande maggioranza di uomini che rispettano e amano le donne è non solo ingiusto, ma anche profondamente controproducente. Una società che aspira all’equilibrio e alla giustizia non può permettersi di cadere nella trappola della colpa collettiva. Ognuno di noi deve essere giudicato per le proprie azioni, non per ciò che rappresenta agli occhi di chi ha deciso di abbracciare una narrazione radicale e generalizzante.
Inoltre, è profondamente offensivo vedere uomini che si sono sempre comportati in modo rispettoso e corretto finire nel calderone di accuse gratuite. Educare al rispetto e combattere la violenza significa partire dalla consapevolezza che la maggioranza delle persone vuole contribuire al cambiamento, non che una parte di esse debba essere demonizzata a prescindere dalla propria condotta e dal proprio pensiero.
Il rischio dell’iperbole ideologica
Etichettare ogni atteggiamento come “violenza psicologica” è una deriva che indebolisce il messaggio, ridicolizzandolo agli occhi di tutti. Così facendo, il termine violenza perde forza e significato, annacquato da un uso sproporzionato che tende a includere tutto e il contrario di tutto. La violenza è una cosa seria, e non può essere confusa con l’espressione di un’opinione o con gesti che, nella loro intenzione originaria, non avevano alcun intento denigratorio.
Dire a qualcuno “Mi piaci così” non è un attacco, non è un tentativo di controllo. Anzi, in molti casi è un’espressione di apprezzamento. Il contesto, che in ogni relazione umana è fondamentale, viene brutalmente ignorato. Così facendo, si rischia di creare un clima di diffidenza, dove ogni parola viene monitorata, soppesata, e alla fine censurata.
Una società spaccata non aiuta nessuno
È tempo di fermare questa escalation retorica. Il vero cambiamento si costruisce con il dialogo, non con le accuse indiscriminate. Le donne meritano una società più giusta, più sicura, più rispettosa, ma questo non può essere ottenuto demonizzando metà della popolazione. Dividere il mondo in oppressori e oppresse è un approccio semplicistico che non rispecchia la complessità della realtà.
Noi uomini rispettosi, che non abbiamo mai alzato una mano né una parola di troppo, abbiamo lo stesso diritto delle donne a essere riconosciuti come individui e non come categorie. Non accetteremo di essere considerati colpevoli per il semplice fatto di essere uomini.
Il rispetto reciproco non si costruisce con il rancore, e una società più equilibrata non nasce dalle accuse collettive. Abbiamo bisogno di unirci contro la violenza vera, quella che distrugge vite e famiglie, non di disperdere energie in crociate contro le ombre. Aiutiamo le vittime, educando chi sbaglia, ma lasciamo in pace chi, ogni giorno, contribuisce a creare relazioni sane e rispettose. Basta con gli eccessi e con le accuse gratuite: non siamo tutti colpevoli, e non è così che si costruisce una società migliore.