La redazione di Identitario rilancia con piacere – su stimolo dell’autore – questo articolo già pubblicato dal Centro Studi Machiavelli, che ringraziamo.
L’articolo di Daniele Scalea Arcobaleno rosso. La teoria gender come parte del neo-marxismo ha ricevuto delle prevedibili critiche, anche da persone che possiamo definire generalmente di destra, in quanto il «vero comunismo» non avrebbe nulla a che fare con le derive woke, femministe e gender. In verità, così come il concetto di “privilegio bianco” ha origini marcatamente marxiste, anche le derive arcobaleno/femministe attingono a piede mani dal marxismo delle origini.
Friedrich Engels il femminista
Engles nel testo L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato (1884) scrive:
“L’oppressione delle donne nasce con la famiglia monogamica, che impone alle sole donne l’obbligo di fedeltà. A sua volta la famiglia monogamica si origina al fine di garantire la certezza della paternità in vista della trasmissione del patrimonio per via ereditaria, dunque in parallelo con l’emergere della proprietà privata. […] Solo la vittoria della lotta di classe da parte del proletariato e l’affermazione del comunismo potranno, dunque, risultare nell’emancipazione femminile”.
Il matrimonio è pura convenzione e «si trasforma spesso nella più crassa prostituzione, talvolta da tutte e due le parti, molto più comunemente da parte della donna, la quale si distingue dalla comune cortigiana solo perché essa non affitta il proprio corpo come una salariata che lavori a cottimo, ma lo vende in schiavitù una volta per tutte».
Uno dei padri del comunismo colpisce frontalmente la famiglia monogamica in quanto è:
“fondata sul dominio dell’uomo, con l’esplicito scopo di procreare figli di paternità incontestata, e tale paternità è richiesta poiché questi figli, in quanto eredi naturali, devono entrare un giorno in possesso del patrimonio paterno […] La monogamia […] appare come soggiogamento di un sesso da parte dell’altro, come proclamazione di un conflitto tra i sessi sin qui conosciuto in tutta la preistoria. […] il primo contrasto di classe che compare nella storia coincide con lo sviluppo dell’antagonismo tra uomo e donna nel matrimonio monogamico, e la prima oppressione di classe coincide con quella del sesso femminile da parte di quello maschile”.
Difficile negare il legame tra il femminismo odierno – anche nelle forme più aggressive – con il «vero comunismo». In effetti, se citassimo le parole di Engles omettendo il suo nome, potrebbero essere pagine attribuite a una femminista radicale contemporanea.
Famiglia, divorzio e aborto nell’URSS
Restando nel campo del «vero comunismo», ovvero nell’applicazione pratica del marxismo, constatiamo che – come scrive Aldo Nardelli – «i capi della rivoluzione russa videro, fin dall’inizio, nella famiglia, così come essa esisteva nel mondo capitalistico, uno dei principali centri di resistenza contro la realizzazione dei loro programmi rivoluzionari: la famiglia si presentava loro come frapposta tra la collettività e l’individuo, come fondata sulla proprietà privata e sulla dominazione dell’uomo sulla donna. L’edificazione della nuova società socialista esigeva quindi la lotta contro l’antica famiglia, contro le consuetudini e le leggi che la regolavano, ed in questa lotta i dirigenti russi si sono mostrati quanto mai decisi ed accaniti».
Nel 1918, a un anno dalla rivoluzione russa, venne liberalizzato il divorzio e riconosciuti pari diritti ai figli nati fuori dal matrimonio (l’unico riconosciuto dallo Stato era quello civile, il matrimonio religioso aveva solo un valore privato). Di fronte alla legge le donne raggiungono la piena uguaglianza con l’uomo. Due anni dopo – nel 1920 – venne legalizzato l’aborto. Con il codice del 1926, la dissoluzione della famiglia fa un ulteriore passo in avanti. Il matrimonio diventa una pura formalità, la poligamia non è più un delitto, si facilita ulteriormente l’ottenimento del divorzio e fuori dal matrimonio le donne possono in qualsiasi momento – prima o dopo il parto – dichiarare al tribunale chi è il padre del bambino, il quale sarà obbligato al mantenimento del figlio. Il presunto padre aveva un mese di tempo per contestare la sua paternità. Tali provvedimenti erano di natura puramente economica, lo Stato non aveva abbastanza risorse per mantenere tanti figli illegittimi.
Stalin: contrordine, compagni! Si torna alla famiglia
Fin qui tutto bellissimo, rivoluzionario, libertario, femminista, all’avanguardia. Tuttavia, come affermava lo stesso Lenin «I fatti hanno la testa dura». La nuova non-famiglia sovietica, in meno di venti anni, aveva già palesato i suoi disastrosi risultati. I dati sulla criminalità giovanile testimoniavano che il 90% dei minori delinquenti passava il tempo libero fuori dalla famiglia. La situazione era talmente preoccupante che la legge stabilì che ogni fanciullo con più di 12 anni che commettesse un furto, una violenza, un assassinio, venisse punito con pene ordinarie previste dal codice per gli adulti. Lo Stato – dal 1935 – iniziò a sanzionare chi non si occupava dei figli, mettendo in campo una serie di misure contro i genitori che si rifiutavano di provvedere al mantenimento della prole. Nello stesso anno, iniziano le prime restrizioni sui divorzi e contemporaneamente, smentendo se stessi a 17 anni dalla rivoluzione, si passa all’elogio sperticato della famiglia.
Il 14 maggio 1936, sul giornale Izvestija la propaganda scrive:
“La famiglia, noi non la dimentichiamo mai, noi non dimentichiamo mai i nostri sposi e i nostri figli. Noi realizziamo pienamente la nostra grande responsabilità nell’educazione dei figli. Essi saranno fieri, forti di corpo e di spirito, non conosceranno il timore, e saranno pieni di amore per la loro patria sovietica; essi cresceranno da veri figli dello spirito di Stalin. Noi ci ricordiamo della prole del grande Stalin: noi siamo le madri e le educatrici della gioventù che è l’avvenire del paese”.
L’inversione di rotta rispondeva a problemi pratici, strutturali. La realtà aveva smentito l’ideologia comunista. Per far fronte al calo della natalità, venne disincentivato l’aborto. A partire dal 1930 – dieci anni dopo la legalizzazione dell’interruzione della gravidanza – venne introdotta una tassa per la pratica dell’aborto, il cui importo aumentò nel corso degli anni, fino alla definitiva abolizione nel 1936. Con l’arrivo della guerra, l’URSS iniziò a tassare le persone senza figli, per poi estendere la tassazione a chi non aveva più di due figli. Lo Stato inaugurò un vasto programma di assistenza per le donne particolarmente feconde. Misure – è il caso di dirlo – molto «fasciste».
L’equivoco
L’equivoco sul «vero comunismo» che difende la famiglia tradizionale è tutto qui. L’URSS aveva applicato in maniera ideologica Marx ed Engels, per poi ritrattare, non certo per difendere la «famiglia tradizionale» bensì per sostenere lo Stato sovietico, che altrimenti sarebbe collassato sotto il peso dell’atomizzazione. In altre parole: l’ideologia non era conciliabile con la sopravvivenza della comunità, sono state le circostanze a far cambiare rotta ai comunisti, non l’ideologia marxista.
I neo-marxisti, i quali sfilano tra inconciliabili bandiere arcobaleno e vessilli palestinesi, più che una negazione del fantomatico «vero comunismo», rappresentano un ritorno alle loro vere origini.
Bibliografia essenziale:
Eguaglianza, a cura di Nicola Riva, Editori Laterza, 2017, cap. XXIV Friedrich Engles 1820-1895.
Friedrich Engles, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, a cura di F. Codino, Editori Riuniti, Roma, 1963, pp. 98-103.
Evoluzione della politica familiare nell’URSS, Aggiornamenti sociali, Vol. 6, n.5 (maggio) 1955, pp. 199-214.
R. Saviter, Le communisme et le mariage, in Revue catholique des institutions et du droit, novembre-décembre 1936, p. 523.