Dopo l’esperienza della Grande Guerra, gli Stati Uniti d’America adottarono una politica isolazionista. Nell’estate del 1940 i sondaggi dimostravano che l’opinione pubblica statunitense era contraria al coinvolgimento del proprio Paese nel nuovo conflitto europeo. Tuttavia, già dai primi di settembre dello stesso anno, dal governo di Washington arrivarono delle direttive che lasciavano pochi dubbi sul protrarsi della neutralità degli Stati Uniti. I provvedimenti presi dalla Casa Bianca rappresentavano un chiaro preludio alla guerra: chiamata alle armi in tempi di pace, uso degli impianti industriali per la produzione di materiale bellico, cessione di vecchi mezzi della Marina all’Inghilterra e una spesa di cinque miliardi di dollari per creare una Marina -con cento portaerei- per due oceani: una per l’Atlantico e l’altra per il Pacifico.
La grande paura degli Stati Uniti era quella di essere circondati dalle forze militari tedesche dopo la caduta di Londra. Inoltre, in quegli anni era in corso la Seconda guerra sino-giapponese (1931-1945) e il governo di Washington si era (non ufficialmente prima del 7 dicembre 1941) schierato con la Cina fornendo supporto alle truppe di Chiang Kai-shek. Gli Stati Uniti intendevano salvaguardare gli interessi degli anglo-americani, dei Paesi Bassi e della Francia nel Pacifico. Due minacce incombevano: Il Giappone nel Pacifico e la Germania in Europa. Il 4 ottobre 1940 F. D. Roosevelt venne informato da Roy Howard che un portavoce giapponese chiedeva agli Stati Uniti la smilitarizzazione di tre basi nel Pacifico: la Wake, la Midway e Pearl Harbor.
Tre giorni dopo, un personaggio molto vicino a Roosevelt, il capo del reparto dell’Estremo Oriente dell’ONI (Ufficio dei Servizi Informativi della Marina) Arthur McCollum [1], che insieme al presidente non condivideva la posizione isolazionista che si era radicata nell’opinione pubblica, inviò un bollettino – in cui illustrava un programma da adottare nei confronti del Giappone – ai capitani della marina Walter Anderson e Dudley Knox.
Il documento, diviso in otto punti, descriveva le azioni necessarie a provocare il Giappone:
1. Accordarsi con la Gran Bretagna per utilizzare le basi inglesi nel Pacifico, soprattutto Singapore.
2. Accordarsi con l’Olanda per utilizzare le attrezzature della base e poter ottenere provviste nelle Indie orientali olandesi [oggi Indonesia].
3. Dare tutto l’aiuto possibile al governo cinese di Chiang Kai-shek.
4. Mandare in Oriente, nelle Filippine o a Singapore, una divisione di incrociatori pesanti a lungo raggio.
5. Mandare due divisioni di sottomarini in Oriente.
6. Tenere la flotta principale degli Stati Uniti, attualmente nel Pacifico, nei pressi delle isole Hawaii.
7. Insistere con gli olandesi perché rifiutino di garantire al Giappone le richieste per concessioni economiche non dovute, soprattutto petrolio.
8. Dichiarare l’embargo per tutti i commerci con il Giappone, parallelamente all’embargo simile imposto dall’impero britannico. [2]
Il programma venne accolto dal governo Roosevelt e messo subito in pratica, nonostante in pubblico, durante la campagna elettorale, continuasse a rassicurare i cittadini di non voler impiegare l’esercito statunitense in guerre straniere. [3] È chiaro che in caso di guerra tra Stati Uniti d’America e Giappone, il Patto Tripartito (Roma-Berlino-Tokyo) siglato appena due settimane prima (27/09/1940), avrebbe trascinato gli USA anche nel conflitto europeo contro Germania e Italia. [4]
Gli inglesi aspettavano l’entrata in guerra degli USA non appena Roosevelt fosse stato rieletto per il terzo mandato (5/11/1940). Il 27 gennaio 1941, il segretario di Stato Cordell Hull ricevette un messaggio inviato dall’ambasciatore J. Grew da Tokyo in cui scriveva che un suo collega [5] era venuto a conoscenza di piani giapponesi che “intendevano attaccare a sorpresa Pearl Harbor”. Il governo non prese provvedimenti. Le intercettazioni dei messaggi in codice del Giappone decrittate da Washington, non vennero inviate al comandante della flotta del Pacifico Husband Kimmel. Tra C. Hull e K. Nomura (ambasciatore giapponese presso gli Stati Uniti) vi furono più di quaranta incontri in cui cercarono una soluzione alla situazione tesa che si era creata tra Giappone e Stati Uniti per il controllo del Pacifico. Il Giappone desiderava riallacciare i rapporti commerciali e trovare una soluzione pacifica al conflitto con Chiang Kai-shek, ma le proposte del governo nipponico vennero respinte in blocco: gli Stati Uniti desideravano mantenere lo status quo nel Pacifico.
Il presidente statunitense ebbe particolare riguardo per il punto 4 e, incoraggiato da Churchill fin dall’ottobre 1940, iniziò a far navigare incrociatori statunitensi –violando il diritto internazionale- nelle acque giapponesi. Il Ministero della Marina del Giappone a fine marzo (1941) indirizzò una nota di protesta all’ambasciatore statunitense Joseph Grew a Tokyo ma F.D.R., disposto a sacrificare qualche nave per la sua causa, non cedette, era sicuro che i giapponesi prima o poi avrebbero risposto alle provocazioni. Nel luglio del 1941 venne chiuso il canale di Panama alle imbarcazioni giapponesi e messo in pratica in punto 8: il Giappone non importava più dagli USA materiale bellico.
Esistono prove documentali [6] su intercettazioni fatte nei primi di novembre dai crittografi statunitensi di messaggi giapponesi che rivelavano i piani di Yamamoto [7] riguardanti le isole Hawaii. Fino al giorno prima dell’attacco erano stati intercettati più di 100.000 messaggi radio delle navi giapponesi: tutti sapevano delle intercettazioni, perfino Churchill (che nel frattempo aveva concesso all’esercito statunitense l’uso di basi militari inglesi nel Pacifico, come previsto dal punto 1 del bollettino di McCollum); mentre gli uomini che più di tutti avevano bisogno di quelle informazioni, l’ammiraglio Kimmel (comandante della Flotta del Pacifico) e il generale Short (con l’incarico di difendere le istallazioni militari delle Hawaii) non ricevettero alcun avviso.
Nel memorandum dell’ambasciatore Grew del 10 novembre 1941, è scritto chiaramente che il Giappone aveva “ripetutamente fatto delle precise proposte per avvicinarsi al punto di vista americano, ma il governo americano… non aveva fatto nulla per andare incontro alle posizioni giapponesi”. [8]
Due settimane prima dell’attacco, l’ammiraglio Kimmel diede l’ordine di spostare la flotta a nord delle isole Hawaii. Quando la Casa Bianca venne a sapere di questo spostamento della flotta del Pacifico nel punto in cui sapevano che i giapponesi progettavano di attaccare, diedero l’ordine di ritirare la flotta da quel punto e Kimmel obbedì. Appena qualche giorno dopo, il 26 novembre, a Kimmel –nonostante le sue proteste- venne ordinato di consegnare tutti i caccia dell’esercito insieme alla portaerei Enterprise alle isole Midway. Nello stesso giorno venne inviata dal governo statunitense una nota che proponeva la risoluzione del conflitto sino-giapponese con delle condizioni inaccettabili per il Giappone. La nota venne recepita dal primo ministro Hideki Tojo come un ultimatum.
Roosevelt era cosciente dell’inaccettabilità delle condizioni proposte, tant’è che la sua unica preoccupazione espressa il giorno prima che venisse inviata la nota al governo nipponico, fu quella di pensare “in che modo potremmo metterli in condizioni di sparare il primo colpo senza esporci ad un pericolo eccessivo”. [9] Nella sera del 30 novembre venne intercettato l’ennesimo messaggio che indicava l’obiettivo della flotta nipponica. Nelle prime ore del 2 dicembre gli statunitensi intercettarono un messaggio che indicava il giorno preciso dell’attacco: il 7 dicembre. La settimana che precedette l’attacco, i giapponesi vennero informati da un infiltrato alle Hawaii che riferiva la totale mancanza di allerta nella base di Pearl Harbor. [10]
Il 5 dicembre Kimmel consegnò anche la portaerei Lexington, insieme a otto moderne navi da guerra. A Pearl Harbor rimasero solo vecchie navi usate durante la Grande Guerra. Durante i sette giorni che precedettero l’attacco, il capitano di vascello C. McMoriss e il comandante V. Murphy, rassicurarono Kimmel che un attacco giapponese alle Hawaii, era improbabile, nonostante i messaggi intercettati dalla Marina dicessero l’esatto opposto. Gli alti ufficiali della Marina non fecero nulla per avvertire Honolulu e quando intercettarono il messaggio giapponese che dava l’ordine di attaccare e lo trasmisero al generale G. Marshall, quest’ultimo, per comunicarlo ai diretti interessati, si servì –inspiegabilmente- della comunicazione R.C.A. (la più lenta) senza nemmeno preoccuparsi di far porre sul telegramma il timbro della precedenza. La comunicazione dell’allerta giunse dopo l’attacco.
Alle 7:52 del 7 dicembre iniziò l’attacco che provocò la morte di 2.476 uomini. Quella mattina, nello studio ovale della Casa Bianca, vennero staccate tutte le comunicazioni telefoniche, mentre Roosevelt sfogliava i suoi album di francobolli.
L’idea che il governo degli Stati Uniti abbia “lasciato fare” i giapponesi nella vicenda di Pearl Harbor viene presentata al pubblico come un’ipotesi “complottista”, la parola magica usata per ridicolizzare qualsiasi versione non conforme alla versione ufficiale. Tuttavia, nel caso di Pearl Harbor, i dubbi sulla negligenza della Marina vennero espressi fin da subito da alcuni politici statunitensi, soprattutto dai repubblicani. Appena dieci giorni dopo l’attacco, alcuni membri del Congresso, chiesero al governo come mai la forza militare del Pacifico sia stata sorpresa in quel modo. Una commissione stilò un rapporto in meno di un mese, concludendo che ogni responsabilità ricadeva sull’ammiraglio Kimmel, il quale venne sollevato dalla carica il 16 dicembre. Responsabile assieme a Kimmel, era il generale Short, rimosso dal comando nello stesso giorno dell’attacco.
Thomas E. Dewey, candidato alle presidenziali con il Partito Repubblicano, nel 1944 fece delle pesanti accuse al governo Roosevelt, sostenendo che quest’ultimo era a conoscenza dei piani dei giapponesi prima dell’attacco. Dalle prime indagini congressuali su Pearl Harbor nel 1945, emerse che i crittografi statunitensi non riuscivano a decrittare i codici giapponesi, cosa che sappiamo essere falsa. L’attacco di Pearl Harbor è stato battezzato dal presidente Roosevelt come “il giorno dell’infamia”, il giorno in cui gli Stati Uniti sono stati improvvisamente e deliberatamente attaccati. Oggi sappiamo che il presidente degli USA e i vertici militari, conoscevano in anticipo le mosse del Giappone, ma il governo non fece nulla per impedire la tragedia. L’attacco di Pearl Harbor fu la diretta conseguenza di trattative fallite e di provocazioni statunitensi. Attendiamo il giorno in cui Roosevelt non verrà più ricordato come il lungimirante presidente del new deal (e noi dubitiamo anche di questo merito), ma anche come il responsabile maggiore dell’attacco di Pearl Harbor, con conseguente entrata in guerra degli USA.
Note:
1. Arthur McCollum (1898-1976) nato e cresciuto in Giappone, a 18 anni tornò negli USA e ammesso all’Accademia navale, dopo la laurea tornò in Giappone come addetto navale all’ambasciata di Tokyo. All’interno della marina statunitense, nessuno conosceva il Giappone meglio di McCollum.
2. Bollettino del 7 ottobre 1940 di Arthur McCollum (Robert Stinnett, Il giorno dell’inganno. La verità su Pearl Harbor, Il Saggiatore, 2001, p 25.
3. Vi fu qualcuno che obiettò. L’ammiraglio James Richardson non era disposto a mettere a rischio la vita dei propri uomini lasciando una buona parte della flotta statunitense nei pressi delle isole Hawaii. Il problema venne risolto sollevando l’ammiraglio dal suo incarico, l’1 febbraio 1941. Al suo posto venne nominato Husband Kimmel. Il presidente si impegnò a piazzare nei posti di comando uomini che approvavano la sua politica, come Walter Anderson, un uomo che non godeva di grande stima all’interno della marina, promosso contrammiraglio comandante di corazzata delle navi da guerra della flotta del Pacifico.
4. Il ministro degli esteri giapponese Yosuke Matsuoka apprese da un incontro avvenuto il 28/03/1941 con Ribbentrop che “La Germania non aveva il minimo interesse ad una guerra contro gli Stati Uniti”.
5. Si tratta di Max Bishop, un segretario dell’ambasciata statunitense a Tokyo.
6. Documenti desegretati con la legge Free of Information Act, riportate nel saggio di R. Stinnett.
7. Isoroku Yamamoto (1884-1943) comandante in capo della flotta militare giapponese, ideatore dell’attacco di Pearl Harbor.
8. Charles C. Tansill, I responsabili della seconda guerra mondiale, Cappelli Editore, 1962, p. 740.
9. Ivi.
10. L’infiltrato era Takeo Yoshikawa, inviato dalla marina giapponese come diplomatico, aveva il compito di svolgere azioni di spionaggio alle Hawaii. Fin dal suo arrivo, nel marzo del 1941, venne subito individuato dalla marina statunitense e tenuto sotto controllo. Gli americani compresero che si trattava di una spia, ma paradossalmente non fecero nulla per fermare il traffico di dati tra Yoshikawa e Tokyo.
PASSAGGIO AL BOSCO HA APPROFONDITO IL TEMA IN QUESTO LIBRO: