In Francia è uscito un libro – prontamente tradotto da Passaggio al Bosco Edizioni – che ha i numeri per aprire un dibattito trasversale: si tratta de “La società della sorveglianza”, breve e scorrevole saggio del prolifico Guillaume Travers, autore di numerosi titoli e intellettuale coraggioso e controcorrente. Il punto di partenza è fin troppo ovvio: l’instaurazione del “pass sanitario” – approvato anche in Italia sottoforma di “green pass” – ha sollevato oltralpe un’eccezionale ondata di proteste.
La particolarità di questo ottimo testo, però, risiede nella sua capacità di andare oltre la mera denuncia: non si limita a constatare e criticare ciò che è ovvio, ma si preoccupa di inquadrarlo nel campo della dottrina politica e dell’evoluzione sociale, offrendo al lettore tutti gli strumenti per comprendere il fenomeno nella sua natura effettiva. Quella che stiamo vivendo – a prescindere dalle legittime opinioni scientifiche, personali e sanitarie – è una riconfigurazione che apre le porte ad un mutamento epocale del nostro stile di vita, operando una chiusura dello spazio pubblico e una restrizione dei cosiddetti “diritti fondamentali”: un processo irreversibile, che introduce una sorveglianza capillare e immanente. Al netto della pandemia, che ha indubbiamente accelerato una realtà già esistente, sono in pochi ad aver compreso il contrasto stridente dei meccanismi in atto: proprio chi si riempie la bocca di “diritti individuali”, “libertà di scelta” e “società aperta” – infatti – caldeggia l’inasprimento di una parabola che ha già introdotto il monitoraggio perenne e generalizzato delle popolazioni, dove ogni individuo è identificato numericamente, tracciato dai codici a barre e – un giorno non troppo lontano – integrato o emarginato attraverso i calcoli di un algoritmo.
Non è un problema legato alla tecnica in sé, ma alla deriva fanatica di chi ne detiene il controllo assoluto: l’élite del capitalismo globale, punta di lancia del modello liberale. Di qui, la disanima dell’autore sulla natura primigenia dei concetti che dominano il dibattito pubblico: che cosa differenzia “la libertà dei liberali” dalla “libertà degli antichi”? La prima, totalmente astratta e contrattuale, non ha nulla a che fare con la concretezza essenziale e spirituale della seconda. Ogni concezione della libertà – infatti – presuppone un’antropologia, cioè una visione dell’uomo e dei rapporti che egli intrattiene con i suoi simili: per i nostri antenati – ad esempio – l’uomo era un “animale politico”, naturalmente spinto ad interagire organicamente nella Comunità di appartenenza. Ciò che dovrebbe definire il posto dell’uomo nella società – quindi la libertà e i diritti di cui gode – non è la sua astratta qualità di essere umano, bensì le sue concrete radici di uomo: perchè ciascuno, anzitutto, esiste come membro di una Polis o di una corporazione. Il fondamento della libertà – che non è mai universale, ma sempre radicata e contestuale – è dunque politico, relazionale e indissociabile dalla cittadinanza, a sua volta corrispondente ad un universo confinato e conosciuto: non è un caso che – in passato – l’esilio, il bando o la scomunica fossero considerate punizioni assai più stringenti della carcerazione, poichè l’esclusione dalla Comunità – seconda soltanto alla condanna a morte – era ritenuta una privazione assai più grande della reclusione coatta.
Blaterare di libertà al plurale, nello stile dei moderni filantropi del mondialismo, significa affermare che l’uomo abbia dei “diritti fondamentali” senza alcuna contropartita: è dalla relazione con il gruppo – invece – che nascono i doveri, essenziali per inquadrare la libertà in un contesto di ordine superiore riferito al “bene comune”. Perchè la libertà è sempre il frutto di una Tradizione, di un’esperienza spartita, di un giuramento non scritto, di un’appartenenza alla stirpe e alla gens, di un’adesione concreta ad un retaggio di obblighi reciproci e ad un chiaro codice d’onore. Ma se la libertà è uno status politico e non un concetto astratto, si rende necessaria una Formazione per comprenderla e vivificarla: ecco il senso della paideia, che è l’educazione di chi aspira all’eccellenza. In tal senso, allora, la libertà non diventa uno scudo che garantisce l’incolumità individuale dalle derive del potere, ma è un tutt’uno con quel Noi collettivo che unisce governanti e governati nella medesima Comunità di popolo. Il vero dramma della prassi liberale, pertanto, è la volontà di relativizzare e cancellare tutte le distinzioni naturali o culturali, comprese quelle politiche.
È questa la natura del “grande reset” in atto: spezzare i legami, omologare le specificità, oltrepassare i limiti, bandire gli ancoraggi e desertificare il dibattito. Dinanzi a noi non si sta disvelando la natura occulta di un complotto, ma la fase ultima del progetto liberale. Per affrontarlo, ancora una volta, dobbiamo attingere al cuore pulsante della nostra Civiltà: creare dei veri spazi di libertà e tornare a ripoliticizzare verticalmente l’esistente.