Nella sua prima edizione, curata nel 1987 da Akropolis, Il “Solstice de juin” veniva giustamente definito “il più discusso libro della letteratura della Collaborazione”. In effetti, il capolavoro di Henry de Montherlant – aspramente criticato dall’intellighenzia bostbellica e indubbiamente apprezzato dai cultori della bella prosa – è un testo fuori dal comune: lo è per lo stile inimitabile, ma anche e soprattutto per le suggestioni che innesca nel lettore.
Al suo interno, tra le pieghe di una Francia occupata dalle armate del Terzo Reich, si riconoscono i tratti della formazione montheraliana: dalla concezione artistocratica e nicciana dell’esistenza all’estetismo dannunziano, dalla mistica paganeggiante al profondo disprezzo per la viltà borghese, passando per l’antisentimentalismo, il culto dell’azione e la necessaria realizzazione di un nuovo Ordine. “Il solstizio di giugno”, oggi ripubblicato per i tipi di Passaggio al Bosco Edizioni, è una finestra sul Novecento: nel giugno del 1940 – infatti – le truppe tedesche dilagano tra le Somme e l’Oise, sfilando vittoriose sui Champs Elysées. Per la Francia è una débâcle assoluta, che ribalta l’esito del Trattato di Versailles e restituisce al mondo l’immagine di un Paese umiliato e prostrato. Agli occhi di Montherland – già reduce dalle trincee della Grande Guerra – quegli eventi rappresentano però la manifestazione di una nuova era: l’immagine della croce uncinata che sventola su Notre-Dame – allora – non sancisce soltanto il trionfo politico e militare del nazionalsocialismo, ma anzitutto la riaffermazione spirituale di una mistica indoeuropea.
A colpire l’autore – successivamente accusato di “connivenza morale col nemico” – è la potenza ancestrale della “ruota solare”, che sembra annunciare la resurrezione di Pan e l’inaspettata défaillance di Galileo: malgrado l’atterrimento iniziale, non nasconde l’asaltazione di quel popolo tedesco cui “va l’antica gloria di aver odiato il cristianesimo e al quale spetta ora il compito di distruggere la morale borghese ed ecclesiastica dalle rive dell’Atlantico fino ai più lontani confini della Russia”. All’iniziale delusione del patriota francese, pertanto, si sostituisce la coscienza dell’uomo europeo. Perchè in ballo, senza dubbio, c’èra il destino di un’intera Civiltà: lo compresero immediatamente i protagonisti della Collaborazione, il cui spessore intellettuale è contastatabile – tra gli altri – nelle migliori pagine di Pierre Drieu La Rochelle, Robert Brasillach, Lucien Rebatet, Alphonse de Chateaubriant, Charles Maurras e Louis-Ferdinand Céline.
Non si trattò di un sostegno interessato, almeno in senso materiale o personale: condanne a morte, carcerazione, suicidi e future censure – del resto – contribuiscono a fugare ogni dubbio in tal senso. Quello della Collaborazione, allora, fu un fenomeno variegato e spontaneo, capace di esprimersi nella letteratura e nella poesia, nel giornalismo e nella prassi politica: un moto volontario, lucidissimo, che troppo spesso è stato liquidato come prezzolato o disgraziato. Un fatto storico, indubbiamente, che non può essere messo in discussione e che restituisce al lettore del terzo millennio la complessità di un’atmosfera culturale che sapeva esprimere – anche nella drammaticità di una guerra totale – il fervente immaginario di una “terza via” che sembrava ribaltare gli equilibri, inaugurare nuovi cicli, tracciare nuove rotte e realizzare nuovi destini.
“Il solstizio di giugno”, meglio di altri, contribuisce a restituire una radiografia precisa e nitida di quei giorni, facendo luce sulla natura intrinseca e profonda di un’adesione ideale che aveva già superato – per lungimiranza e avanguardismo – i vecchi schemi della logorata accozzaglia plutocratica. Montherland andò oltre, arrivando a scrivere: “Bisogna volgere le spalle e dire sì, di buon grado, a ciò che è appena accaduto. Siamo stati sconfitti come più regolarmente non si poteva. Accettazione, dunque. E poi adesione”.
La virilità germanica, incontrandosi con la femminilità francese, avrebbe ridestato l’anima della sua Nazione e risvegliato un popolo “smidollato e imborghesito”, rieducandolo al coraggio, al vigore e al sacrificio. Non era, il suo, un vile tradimento: aveva capito prima degli altri – anche in virtù di una profonda concezione franco-tedesca – che “le fronde paesane, puerili e sordide” sono solo un insulto al patriottismo, anche quando vi si ispirano. Sentiva, come Pierre Drieu La Rochelle, la necessità di creare una Patria europea “compatta come un blocco d’acciaio” e costruita “col sudore di tutte le classi”.
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