Nel 357 d.C. Flavio Claudio Giuliano, futuro imperatore, alla testa di 12.000 legionari, inflisse una sconfitta decisiva ad un esercito di 30.000 Alamanni nella battaglia di Strasburgo, rendendo nuovamente sicura la frontiera del Reno, ossia il “limes” che segnava la linea di demarcazione tra l’Impero romano e tutto ciò che era al di fuori di esso.
Appena vent’anni dopo, lo scenario mutò radicalmente. Correva l’anno 376, un’estate torrida. Incalzati dagli Unni giunti nell’Europa centrale, i Goti accorsero in massa sulle rive del Danubio, chiedendo accoglienza nella diocesi della Tracia che si estendeva fino a Costantinopoli e al mar Egeo. L’imperatore Valente acconsentì, ma le operazioni di trasbordo si rivelarono più difficili del previsto sia per l’elevato numero di profughi sia per la corruzione dei funzionari locali.
La situazione precipitò in fretta e si arrivò così alla disfatta militare di Adrianopoli del 9 agosto 378, la più grave dai tempi di Canne e Teutoburgo. A prendere in mano le redini fu Teodosio e la drammaticità del contesto impose quella che era forse l’unica scelta possibile: ricostituire le armate orientali, assimilandovi i barbari. Ciò avvenne con gli accordi del 382: base giuridica dell’integrazione dei popoli germanici nel mondo romano-cristiano e, al contempo, preludio alla sua disgregazione territoriale.
Alla morte di Teodosio nel 395, per sua volontà, l’Impero fu ripartito tra i due figli: Onorio ad Occidente ed Arcadio a Oriente. Paradossalmente, l’Impero romano d’Oriente non subì gli effetti disastrosi della politica migratoria teodosiana grazie a taluni fattori determinanti: il buon governo, l’assenza di lotte interne, la pace con il vicino Impero sasanide e l’impenetrabilità delle mura di Costantinopoli, per giunta presidiata da una possente flotta che precludeva ogni possibilità di attacco dal mare. Ci sarebbero voluti i cannoni di Maometto II nel 1453 per far cadere la città di Costantino. A farne le spese, viceversa, fu l’Impero d’Occidente.
Il 31 dicembre del 406 d.C., nei pressi di Magonza, orde di Vandali, Svevi e Alani apparvero sulla sponda del Reno. Attraversato il fiume e saccheggiata Magonza stessa, nei due anni successivi i barbari misero a ferro e fuoco la Gallia, “invasa dal fumo di una sola pira funebre” come scrisse il poeta Orienzio. Gli fece eco Prospero d’Aquitania: “Né la campagna né la città sono quali erano: tutto rotola a capofitto verso la fine”. Razziata la Gallia, fu la volta della Spagna, invasa nel 409 e sottomessa nel 411.
A quel punto i barbari decisero di colonizzare stabilmente i territori occupati, appropriandosi del gettito fiscale destinato alle casse imperiali ed arrecando un grave nocumento al bilancio pubblico. La caduta nel baratro sembrava imminente, considerando altresì la secessione dell’usurpatore Costantino III, sceso dalla Britannia, e nel 410 il saccheggio di Roma da parte dei Goti i quali posero così fine all’inviolabilità dell’Urbe protrattasi per otto secoli.
Quando tutto sembrava perduto, un uomo chiamato Flavio Costanzo fu nominato magister militum dell’esercito d’Occidente, assumendone il comando supremo. Fu allora che, come l’araba fenice, Roma sembrò risorgere. Sgominati gli usurpatori e sottomessi i Goti, Costanzo si servì di questi ultimi per riprendere il controllo della Spagna. Dopodiché, assegnò loro come premio delle terre nella Gallia sudoccidentale, tra Tolosa e Bordeaux. La morte prematura di Costanzo, il 2 settembre del 421, significò nuovamente il caos ma, in verità, la sua pur straordinaria opera di “reconquista” non aveva risolto il problema fondamentale: la penetrazione e l’influenza di forze esterne nelle falle del sistema politico romano.
Al riguardo, emblematico è l’episodio verificatosi durante l’assedio di Roma: Alarico, re dei Goti, attribuì la porpora imperiale al senatore Attalo che non si fece scrupoli ad accettarla. Con il passaggio dal “principiato” al “dominato”, a seguito dell’avvento al potere di Diocleziano sul finire del III secolo d.C., l’imperatore aveva cessato di essere un “primus inter pares” secondo la formula introdotta da Augusto. La maschera fu gettata e, con essa, l’ipocrisia di una reale condivisione del potere con il Senato.
L’imperatore era ormai un monarca assoluto e la sua volontà fonte primaria di un diritto sempre meno affidato alla libera interpretazione dei giuristi. Ciononostante, si perpetuò la tradizione della sua investitura formale da parte del Senato che rivolgeva ad ogni nuovo regnante il medesimo augurio: “Felicior Augusto, melior Traiano” (“Possa tu essere più fortunato di Augusto e migliore di Traiano”). Il riferimento non era causale giacché riguardava, da un lato, il fondatore dell’Impero e, dall’altro, l’imperatore che aveva condotto Roma alla massima espansione territoriale.
Se Quinto Aurelio Simmaco nel IV secolo d.C. poté perorare contro le frange radicali del cristianesimo la causa della conservazione dell’Altare della Vittoria all’interno del palazzo del Senato, la Curia Iulia, ciò fu possibile anche per il prestigio morale di cui godeva quale membro dell’antichissima assemblea dei “padri coscritti”. Un prestigio calpestato, ridotta la carica imperiale a merce di scambio con le tribù barbariche. D’altra parte, lo scopo di queste genti non era la bieca distruzione, ma piuttosto il desiderio di godere del benessere e dei vantaggi che la civiltà romana offriva.
Stanchi di un errare senza fine, verosimilmente miravano ad uno stanziamento nelle province come coltivatori. Tuttavia, giunti in Gallia con la forza, non avrebbero mai più lasciato i territori dell’Impero d’Occidente che fu obbligato a scendere a patti con loro. Morto Flavio Costanzo, salvo fortunate eccezioni, si succedettero sovrani inetti o pavidi che favorirono l’anarchia e la progressiva disgregazione dell’autorità imperiale, non più in grado di governare dal centro le dinamiche politico-militari dei territori periferici. Ritiratosi il potere centrale dello Stato romano, i barbari, ancorché stanziati sulla base di accordi formali (c.d. foedera), li violarono sistematicamente, inglobando aree sempre più vaste ed ivi costituendo un contropotere, infine sostituitosi a quello dell’Impero.
Si pensi al menzionato accordo con il quale Flavio Costanzo aveva assegnato l’Aquitania ai Goti i quali non tardarono ad assumere il controllo dell’intera Gallia sudoccidentale fino ai Pirenei, delle città di Marsiglia, Arles e Clermont in Provenza, dell’Alvernia e di quasi tutta la penisola iberica. Così nacquero i regni romano-barbarici e quasi per un crudele scherzo del destino, nel fatale anno 476, fu deposto l’ultimo “Cesare” d’Occidente, Romolo Augustolo che portava i nomi rispettivamente del primo re e del primo imperatore di Roma.
Facendo un passo indietro, nell’ottobre-novembre del 417 Rutilio Namaziano, già prefetto di Roma, scrisse un poema intitolato “De reditu suo” sulla strada di ritorno verso la Gallia, sua terra natìa. Pur contemplando con amarezza la distruzione lasciata dai barbari nelle strade e nei campi, Rutilio esaltava la missione civilizzatrice di Roma:
“I tuoi doni spargi come i raggi del sole/ lontano come le onde dell’Oceano che cingono la terra/ Febo, che abbraccia ogni cosa, corre per te/ i suoi desideri si levano e tramontano sui tuoi domini/ Lontano fin dove si estendono i climi abitabili verso entrambi i poli la tua virtù trova il cammino/ Hai fatto di genti diverse una sola patria/ la tua conquista ha giovato a chi viveva senza leggi/ offrendo ai vinti l’unione nel tuo diritto/ hai reso l’orbe diviso un’unica Urbe”.
Questa tendenza dei Romani ad assimilare i vinti è testimoniata da un discorso pronunciato in Senato dall’imperatore Claudio nel I secolo d.C.: “I Galli si sono assimilati a noi nei costumi, nelle arti, nei vincoli di sangue”.
Scriveva il retore Publio Elio Aristide nel suo “Elogio di Roma” del 143 d.C. che meritoriamente la cittadinanza veniva concessa a coloro che rappresentavano “il meglio per talento, coraggio, influenza” e che Roma aveva “creato una casa comune (…) costruito ponti su fiumi e (…) realizzato vie, tagliando anche le montagne, (…) creato stazioni di sosta nel deserto, (…) civilizzato ogni cosa con il suo modo di vita e il suo ordine”. Nel suo poema Rutilio aggiunse: “Le cose che rifiutano di affondare, riemergono ancora più forti/ e più in alto dalle più ime profondità rimbalzano/ e mentre la fiaccola rovesciata riprende nuova forza/ tu, più luminosa dopo la caduta, aspiri al cielo!”
L’imperativo morale, quindi, era di ricostruire quanto abbattuto, rinascendo più forti di prima. Stupisce che uno dei più begli inni alla grandezza di Roma sia stato composto proprio durante il suo crepuscolo: un vero esempio di tenacia attraverso un ritorno allo spirito originario della romanità. Molti oggi evocano un parallelismo tra le invasioni barbariche del V secolo ed i flussi migratori verso l’Europa, via via più massicci specie dopo le “primavere arabe” del 2011. Come rammentato, la gestione dei rapporti con le tribù insediatesi nella Pars Occidentalis divenne insostenibile al venire meno della primazia dello Stato romano, dilaniato da lotte politiche intestine e a questa inerzia supplirono dei potentati autonomi, poi divenuti regni indipendenti. In definitiva, l’autorità imperiale in Occidente si restrinse territorialmente fino a scomparire: per taluni fu un “assassinio”, per altri una mera transizione politica.
La prima tesi è sostenuta, tra gli altri, dall’illustre studioso Bryan Ward-Perkins nell’opera “La caduta di Roma e la fine della civiltà” da cui si evince che il declino della demografia, dell’economia, dei commerci e delle comunicazioni fece tramontare una società ben organizzata e strutturata. Ergo, la fine della civiltà intesa non come superiorità morale, ma come complessità e benessere. Una fine resa evidente dallo spopolamento dei maggiori centri urbani a cominciare dalla stessa Roma, dall’incuria nella manutenzione stradale, dalla scomparsa della sapienza architettonica e ingegneristica e dal graduale abbassamento del livello di alfabetizzazione.
Per un orientamento opposto, la nascita dei regni romano-barbarici fu il prodromo dell’Europa moderna in un’ottica di continuità tra epoca romana e Medioevo. A tal proposito, Peter S. Wells suggerisce di abbandonare termini quali invasione, declino e crisi in favore di altri: migrazione, transizione, “accommodation” (sistemazione). Dunque, il mondo romano non venne distrutto, ma trasformato con l’innesto di sangue germanico e la sistemazione dei nuovi venuti in territori già moribondi. La “finis Romae” ha ispirato poeti, scrittori, storici, filosofi e tragediografi. Edward Gibbon ebbe l’idea di scrivere l’opera “Declino e caduta dell’Impero romano” una sera di ottobre del 1764, mentre meditava sul Campidoglio, estasiato di fronte alle vestigia imperiali.
Nel 1770 lo storico scozzese William Robertson osservò:
“In meno di un secolo da quando la nazione barbara si era stabilita nelle sue nuove conquiste, scomparvero quasi tutti i portati della civiltà e della cultura che i Romani avevano diffuso in tutta Europa. Non solo le arti dell’eleganza, che servono al lusso e ne sono sostenute, ma molte di quelle arti utili, senza le quali è difficile concepire gli agi della vita, andarono trascurate o perdute”.
Agli antipodi Peter Brown che ne “Il mondo tardo antico”, pubblicato nel 1971, esorta “a trattare l’epoca che va dal 250 circa all’800 come un periodo storico decisivo, inconfondibile e a sé stante” anziché come “la storia dello sfacelo di una civiltà un tempo gloriosa e superiore”. Comunque la si pensi, la fine del mondo antico rappresentò per molti un evento traumatico, come si evince dal poema di Rutilio Namaziano. Tale opera, al contempo, racchiude un messaggio di speranza e di riscatto morale per un sistema in disfacimento. Viceversa, nell’odierno Occidente, stretto nella morsa di un inverno valoriale e demografico, non mancano coloro i quali affermano che la “finis Europae” sia inevitabile e persino auspicabile in una prospettiva di dilagante relativismo culturale. Ognuno deve fare la sua scelta: tenere vivo il fuoco della Tradizione o lasciare che il gelo la spenga.
BIBLIOGRAFIA
[1] Peter Heather, “La caduta dell’Impero romano. Una nuova storia”, Garzanti, 2015
[2] Bryan Ward-Perkins, “La caduta di Roma e la fine della civiltà”, Laterza, 2011
[3] Peter S. Wells, “Barbari. L’alba del nuovo mondo”, Lindau, 2017
[4] Edward Gibbon, “Declino e caduta dell’Impero romano”, Mondadori, 2017
[5] Santo Mazzarino, “L’impero romano – Vol. 2”, Biblioteca storica Laterza, 2010