Sono trascorsi dieci giorni dall’attacco di Hamas su Israele. L’offensiva, diretta e frontale, ha prodotto 1200 morti e avviato l’escalation che sta infiammando il Medio Oriente: oltre 5mila razzi, incursioni mirate con offensive dirette, presa di ostaggi e annichilimento delle postazioni di confine. L’estabilishment di Tel Aviv, colpito al cuore come non era mai avvenuto prima, ha reagito immediatamente con grande durezza. Dopo poche ore, infatti, il ministro della Difesa Yoav Gallant, senza giri di parole, dichiarava ai microfoni delle più importanti testate del pianeta: “Ho ordinato il completo assedio di Gaza: non ci sarà elettricità, né cibo, né benzina. Tutto è chiuso. Stiamo combattendo animali umani e ci comporteremo di conseguenza”.
Da allora, la Striscia è stata sottoposta ad un bombardamento massiccio e costante, con l’utilizzo di migliaia di ordigni e la diffusione del “fosforo bianco”, vietato dalle convenzioni internazionali. Ad oggi, sono oltre 3mila le vittime accertate tra i civili palestinesi, alle quali si uniscono gli oltre 1Omila feriti ricoverati in ciò che resta degli ospedali e il mezzo milione di sfollati che cercano di mettersi in salvo con scarse probabilità di successo. Mentre si attendono l’offensiva di terra e il consolidamento di quella aerea, con centinaia di carri armati sul confine e migliaia di riservisti richiamati alle armi dallo Stato ebraico, l’ONU lancia l’allarme: “siamo davanti ad una catastrofe umanitaria”.
Ilan Pappé, storico israeliano di levatura mondiale, definì i territori palestinesi “la più grande prigione a cielo aperto del mondo”: chissà se anche per lui, ebreo e cittadino di Tel Aviv, è prevista l’equazione che vorrebbe equiparare l’antisionismo e l’antisemitismo nel medesimo paradigma discriminatorio. Del resto, qualunque siano le responsabilità, non può essere negata la realtà dei fatti: ciò che resta della striscia di Gaza e della Cisgiordania – costantemente “mangiate” dai nuovi insediamenti dei coloni israeliani – è un deserto di miseria e di dolore, dove 2,45 milioni di persone – la metà delle quali bambini – sopravvivono a fatica in assenza di ogni diritto elementare, di ogni risorsa primaria e di ogni prospettiva futura. Uno scenario apocalittico, che in questi giorni ha toccato il suo apice: centinaia di palazzi diroccati e interi quartieri ridotti in macerie, strutture distrutte e viabilità impossibile, ospedali senza medicinali e ambulanze senza carburante, interruzione dell’energia elettrica e acqua contaminata, impossibilità di seppellire i cadaveri e controversi avvisi di evacuazione, popolazione allo stremo e mancanza di viveri: oltre alla tragedia igienico-sanitaria, si rischia la carestia di massa, nel silenzio assordante di una comunità internazionale che avrebbe il dovere di intervenire immediatamente per tutelare i civili, a prescindere da ogni giudizio politico, storico e militare sulla genesi e la prosecuzione del conflitto in atto.
Le immagini che mostrano i bombardamenti israeliani sul valico di Rafah – unico passaggio verso l’Egitto – fanno temere il peggio, mentre le incursioni aeree di Tel Aviv si scagliano sulle infrastrutture aeroportuali della Siria e sui territori del Libano, provocando l’immediata e decisa reazione di Hezbollah, che ha sparato alcuni razzi sulle postazioni israeliane limitrofe: un calderone che rischia di esplodere, estendendo il conflitto all’intero Medio Oriente. Infine, il recente bombardamento dell’ospedale di Al-Ahli, con il suo carico di morte e distruzione sui civili inermi: un fatto gravissimo, sul quale rimbalzano le accuse tra le due parti. Del resto, le smentite e le controsmentite fanno parte di quella che molti definiscono “propaganda di guerra”: è la medesima che abbiamo visto andare in onda in Siria, quando si accusava il regime di Assad di crimini mai commessi o perpetrati dai “ribelli” al soldo della destabilizzazione permanente. Ad ogni modo, un fatto resta certo: Gaza è sull’orlo della catastrofe umanitaria e la comunità internazionale non può far finta di nulla. Ignorare il massacro, comunque la si pensi, sarebbe un errore imperdonabile.