“Globalismo”: una parola pesante, senz’altro. Cosa realmente significa?
Tecnicamente, bisognerebbe parlare di “Globalizzazione”, essendo il Globalismo la corrente di pensiero che legittima e incoraggia la prima. La Globalizzazione è quel fenomeno che, soprattutto negli ultimi anni, ha portato a una sempre maggiore integrazione dei mercati, con conseguente abbattimento delle barriere tariffarie alla libera circolazione delle merci. Tutto ciò, è finalizzato alla creazione di un “Global Village”, sorta di mercato economico planetario basato sulla libera circolazione di tutti i fattori produttivi (merci, forza-lavoro, servizi, capitali), a cui non può che seguire un vero e proprio “capitalismo selvaggio”. Tale capitalismo, di marca ottocentesca, risulta sempre più caratterizzato da delocalizzazioni, privazioni delle garanzie minime della forza lavoro, abbattimento dei costi della manodopera e delle materie prime, sfruttamento spietato dei sistemi economici più deboli e meno competitivi. Teoricamente, un simile sistema di regolamentazione – o, meglio, di deregolamentazione – delle relazioni commerciali tra gli stati, nelle intenzioni dei suoi propugnatori avrebbe dovuto garantire un benessere maggiore e più diffuso per tutti i popoli e le fasce sociali, ma si è rivelato unicamente foriero di ingiustizie. La politica ha perso la capacità di dirigere l’economia, e si limita a favorire la piena espansione della produzione e del profitto. Si è affermato, quindi, un modello planetario di società consumista, omologata e omologante. La società dei consumi ha una natura perversa, perché la sua sopravvivenza è strettamente legata all’individuazione e alla creazione di sempre nuovi bisogni da soddisfare e, pertanto, a una sempre maggiore produttività, con tutto ciò che ne deriva in termini di inquinamento ambientale. Il radicamento e la diffusione della Globalizzazione sono stati favoriti, negli ultimi tempi, anche dall’enorme progresso delle tecnologie informatiche e dall’imporsi della cosiddetta New Economy.
“Contro il Globalismo” è un libro forte, chiaro, necessario. Quali sono le principali insidie da cui intende mettere in guardia il lettore?
Benché i movimenti “No Global” – a partire dal “popolo di Seattle del 1999” – costituiscano una galassia variopinta, ideologicamente e culturalmente essi sono prevalentemente di “sinistra”, per utilizzare una definizione semplificatrice ma efficace. Il libro si propone una critica diversa al fenomeno della Globalizzazione, tentando di metterne in luce i risvolti negativi non solo in ambito economico, ma anche culturale, etnico e politico. La Globalizzazione, infatti, non ha significato solo la libera circolazione delle merci, ma anche delle persone, con conseguente precarizzazione del lavoro ed omologazione delle culture e delle tradizioni. Ha favorito lo sradicamento dei popoli, e ha sconquassato i sistemi culturali ed economici più deboli, innescando processi pericolosissimi. Il fenomeno in questione ha origini remote, che si possono far risalire alla Seconda Guerra Mondiale, quando le potenze vincitrici liberalcapitaliste (escludendo l’URSS), con alcuni incontri al vertice come quello di Bretton Woods, nel 1944, e l’istituzione del GATT – General Agreement on Tariffs and Trade – nel 1947, pianificarono il processo di integrazione dei mercati. Un processo lungo, che ha raggiunto l’apice nel 1995, con la creazione dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, che istituzionalizzò gli “incontri al vertice” tenutisi negli anni precedenti, come il Kennedy Round, il Tokyo Round e l’Uruguay Round, al fine di pianificare il nuovo Ordine Economico Mondiale. Tutto parte da molto lontano, dalla vittoria politica e militare – quindi, ideologica – di uno specifico modello di società, di una specifica Weltanschauung. Non a caso, la Carta Atlantica del 1941 – manifesto programmatico delle nazioni in guerra contro l’Asse – delineava, in maniera semplice e sintetica, il diritto d’accesso alle risorse economiche del pianeta; tuttavia, nessuno avrebbe pensato che si sarebbe tradotta nel suo esatto contrario. Anche l’istituzione delle Comunità europee – CECA, EURATOM, CEE – ebbe originariamente finalità economiche e commerciali, ma non fu altro che il primo tentativo di attuare su scala europea, e quindi territorialmente più circoscritta, il progetto globalizzante, con la creazione di un’area di libero scambio (Mercato Comune Europeo), l’abbattimento delle tariffe interne, e un maggior coordinamento delle politiche economiche degli stati. Anche in tal caso, si è andati ben oltre gli intenti, e col tempo, superando l’obiettivo economico, il progetto originario si è tradotto nella progressiva privazione dei popoli europei della propria sovranità, a favore di centri decisionali sovranazionali. Si tratta, questo, di un processo ben lungi dal concludersi.
Al tempo del “tutto indistinto”, della “network society” e della morte delle idee, come si riafferma la centralità del confine e della radice insostituibile?
Formando le coscienze per sviluppare una sensibilità alternativa all’esistente, e quindi realmente “rivoluzionaria”. Poi, occorre un’azione più incisiva degli stati-nazione, attori primari della politica internazionale, e pure dell’élite politica. Benché tanto vituperati dal pensiero globalizzante, gli stati-nazione continuano ad essere i protagonisti della scena politica, visto che i centri di potere sovranazionale, come l’ONU, non riescono efficacemente a sostituirli, soprattutto nella gestione delle grandi crisi. Se l’aspirazione dei sostenitori della Globalizzazione è creare una sorta di Direttorio mondiale, allora bisogna constatare che essi hanno fallito, perché l’iniziativa appartiene ancora agli stati, e lo stato – come è noto a chiunque abbia nozioni elementari di teoria generale del diritto – si compone di elementi strutturali fondamentali – territorio, popolo, sovranità – che simul stabunt vel simul cadent, nel senso che, se uno di essi viene a mancare, viene meno il tutto. Questo, ancora, non sembra sia avvenuto! Quindi, pur senza cedere a inattuali statolatrie, è lo stato a dover prendere l’iniziativa, riaffermando la preminenza del politico sull’economico e salvaguardando i propri confini. Tutto ciò rientra pienamente negli obiettivi di ogni comunità politica, e nel mio libro questi temi sono adeguatamente sviluppati.
Le giovani generazioni, anche quando riconoscono le molte storture del tempo presente, cadono facilmente preda di un fatalismo incapacitante. Nell’era della società aperta, come far scoccare ancora nei loro cuori la scintilla identitaria?
Purtroppo, non solo i giovani cadono preda del fatalismo! L’unica alternativa ad esso sono lo studio e la documentazione, che – paradossalmente – nella società aperta e dei social network dovrebbero essere attività fortemente favorite, data la facilità a reperire informazioni rispetto al passato. Ma occorre anche essere fortunati e avere buone guide, dai genitori, alle famiglie, ai docenti. Il mondo dell’istruzione – a tutti i livelli e salvo rare eccezioni – è pervaso da un conformismo disarmante, ed è molto raro trovare insegnanti che “instradino” i propri allievi lungo interpretazioni della Storia e dell’attualità alternative a quelle comunemente diffuse. La macchina della censura e della repressione – parlo per esperienza diretta – è sempre vigile, al di là di quanto viene quotidianamente sbandierato riguardo alla democrazia, al confronto e alla libertà d’opinione! Siamo un Paese in cui è pericoloso anche organizzare la presentazione di un libro! Quando ero più giovane, esistevano ancora i partiti della Prima Repubblica al tramonto, e c’era l’opportunità, anche al di fuori dell’ambiente scolastico o familiare, di costruirsi una propria “visione del mondo” diversa da quella imperante. Oggi, è tutto più difficile, e mancano guide autorevoli. Questo è il problema, e non la vedo facile, perché tutto è affidato all’iniziativa individuale. Lo studio rimane l’unica strada percorribile, perché nessuna azione politica può produrre cambiamenti significativi se non è sostenuta da una seria elaborazione teorica. Spero quindi che il mio libro possa rappresentare un piccolo tassello nel grande mosaico della formazione di menti nuove, realmente alternative.
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