Per secoli l’Occidente ha visto l’Africa come una res nullius, chi apparteneva all’esclusivo club delle sue potenze poteva rastrellarne le risorse a piacimento, ivi compresi i nativi, oggetto di sfruttamento al pari del bestiame. Ciò nella convinzione che quella europea fosse la civiltà, l’unica possibile, secondo la logica del “fardello dell’uomo bianco” che Kipling assegnava al colonizzatore europeo (meglio se anglosassone): usare il mondo a propria discrezione. Presunzione identica a quella che informa oggi le liberal-democrazie che da quel medesimo contesto provengono.
Per l’Africa fu la lunga stagione del colonialismo che incise su due piani: quello economico, spremendo i territori delle loro risorse, e quello culturale, destrutturando le società e le comunità locali per imporrei propri standard e meglio controllarle (vi ricorda qualcosa nell’attualità delle nostre latitudini?). Sia come sia il colonialismo ebbe fine col doloroso percorso della decolonizzazione, peccato che morto quello sia sorto l’assai peggiore neocolonialismo: la differenza è che un regime coloniale qualche responsabilità se la deve pur prendere per amministrare i territori che controlla, una multinazionale no. Per nulla. E può permettersi d’essere ancor più rapace.
La dinamica ebbe forte accelerazione con l’implosione dell’URSS che tolse all’Occidente uno scomodo competitor, e il “momento unipolare” segnò il completo asservimento del Continente, segnando l’apogeo del saccheggio delle risorse africane. Che sono immense: dal cobalto al platino, dall’oro al cromo, dal coltan all’uranio, alla bauxite, è quasi impossibile citare commodities di cui l’Africa non sia straricca, a non parlare delle riserve di petrolio e gas, avviate a concreta prospettiva d’essere le prime al mondo.
Ma nulla dura per sempre. Malgrado tutto, le cose sono progressivamente – e radicalmente – mutate per vari fattori: culturali, per il diffondersi di una repulsione del neocolonialismo non basata su ideologie aliene al Continente (come il marxismo) ma sulla valorizzazione delle caratteristiche proprie e della crescente consapevolezza di sé; politici, con l’ingresso in Africa di nuovi attori. Agli occhi africani l’Occidente s’è segnalato per rapacità, per i ricatti del FMI e della BMI, per l’imposizione di standard estranei e per arroganza venata di razzismo. E la diffusione della presenza cinese – tale da far parlare di un’Africa Gialla – a cui si sono aggiunte quella russa e – da ultime – turca ed emiratina, ha dato alle leadership africane che emergevano valide alternative.
È in questo contesto che l’Africa ha già preso a cambiare: i principali indicatori United Nation Development Programme segnano netto miglioramento delle condizioni di vita (pur con squilibri di cui l’Occidente non è affatto esente, gli USA ne sono esempio eclatante), con ciò dati alla mano smentendo l’archetipo di un Continente condannato a miseria eterna. Lo stesso debordante peso demografico è ambivalente: se da un canto prefigura difficoltà a reggere tale massa, è pur vero che le immense risorse africane siano state finora impiegate al peggio e per interessi altrui. E poi, con buona pace delle influenze malthusiane oggi di moda, una popolazione giovane è per definizione tendente a dinamismo e può rivelarsi asset formidabile.
L’Africa sta riemergendo con le sue “differenze”, non accetta più modelli imposti dall’esterno e bada assai più ai suoi interessi nazionali. Il cozzo fra Egemonismo USA vs resto del mondo, il cosiddetto Sud Globale, ha accelerato tali processi e il Continente s’è dimostrato assai più incline a seguire l’utile proprio piuttosto che input altrui (vedasi i voti all’ONU). In poco più di due anni, una catena di colpi di stato – dimostratisi del tutto in linea con la volontà popolare – hanno distrutto la proiezione del potere occidentale in Africa, di quello francese in particolare.
Prova provata di tale orientamento sono state le elezioni in Senegal, da pilastro del colonialismo francese divenuto alfiere del cambiamento attraverso le urne. E non è solo Parigi nel mirino, ma l’arroganza occidentale: il 16 marzo la giunta militare nigerina ha troncato l’accordo imposto nel 2012 da Washington e i militari americani sono costretti a lasciare il paese con i loro droni, sostituiti in tempo reale dall’Afrikansky Korpus russo.
L’Occidente – in primis gli USA – non comprende gli africani, non può, è del tutto prigioniero della propria visione del mondo, di una geocultura in crisi manifesta; al proprio interno fratturata e all’esterno ormai rifiutata. Non comprende che oggi, in un mondo di fatto multipolare, l’Africa può scegliere e lo sta facendo (lezione che ai giorni nostri i colonizzati potrebbero dare a molti ex-colonizzatori). Il punto è che, malgrado rimosso o relegato alla mera questione dei migranti, i paesi europei non possono prescindere da quel Continente (massimamente l’Italia). È crimine verso se stessi trascurarlo per suo peso demografico, per rilevanza delle risorse (che non si lascerà più rapinare) e per vicinanza geografica, dunque geopolitica.
Buonsenso vorrebbe che l’Occidente mutasse atteggiamento, non fosse che per convenienza; esperienza dice che non lo farà e sarà il Continente che dicevano “nero” a salutarlo e andare per la sua strada, lasciandolo alla sua decadenza.